lunedì 16 aprile 2007

L’identità del Partito Democratico

vi segnalo questo stimolante articolo tratto da http://www.leftwing.it

Il Partito democratico non serve alla sinistra italiana, non serve ai gruppi dirigenti e nemmeno ai militanti di Ds e Margherita, non serve al centrosinistra nel suo complesso. E’ all’Italia che serve un partito democratico, perché è la democrazia italiana che da quindici anni vede le sue strutture portanti piegarsi sotto il peso di una delegittimazione crescente, che non a caso si è accompagnata alla progressiva espropriazione delle sue prerogative e dei suoi poteri. Una lunga fase difficile – che si può definire di transizione o di crisi, secondo i gusti – in cui di fatto la campagna di delegittimazione della politica e delle istituzioni democratiche ha ottenuto due effetti: da un lato una sostanziale sospensione del diritto, così da permettere regolamenti di conti interni condotti per le spicce; dall’altro l’inibizione delle capacità di reazione del sistema, tenuto sotto scacco dalla stampa e dalla magistratura.Non è questa la sede per stilare un bilancio delle inchieste che tra il 1992 e il 1993 hanno decapitato la classe dirigente del nostro paese. Quale che sia il giudizio su quella stagione e sulla condotta dei suoi principali protagonisti – nei partiti e nelle istituzioni, nelle procure e nei giornali, nel mondo della finanza e dell’editoria – non si può non vedere, però, come l’Italia di oggi sia ancora, almeno in larga misura, il paese uscito da quel gigantesco e tumultuoso processo di ristrutturazione del potere.Da quindici anni, in Italia, si discute ininterrottamente di nuove leggi elettorali e di più generali riforme istituzionali. Basterebbe questa semplice annotazione a dare la misura esatta della crisi. Da quindici anni il dibattito pubblico e l’intero sistema politico appaiono ripiegati su se stessi. Immobili al centro della scena, dinanzi a un pubblico stupefatto e sempre meno numeroso, gli attori discutono animatamente tra loro del copione e della scenografia, mentre improvvisati registi salgono sul palco e ne vengono buttati fuori con crescente rapidità. Di qui le tante stucchevoli discussioni sulle riforme che sarebbero necessarie e sull’incapacità delle maggiori forze politiche di porvi mano, sul perché in Italia la sinistra non possa fare la sinistra e la destra non possa fare la destra, sulla misteriosa e irriducibile anomalia della democrazia italiana.Volendo intrattenersi un po’ di tempo in allegria, si potrebbero passare in rassegna le tante formazioni politiche fiorite e appassite nel corso di questi quindici anni: nuovi partiti e nuove alleanze, federazioni di partiti e movimenti più e meno spontanei, in una giostra di scissioni e ricomposizioni che ha partorito gli incroci più sensazionali. Molti illustri segretari di partito hanno alle proprie spalle un numero considerevole di simili esperimenti, storici incontri, nuovi inizi e svolte epocali. Non è questa la storia del Partito democratico, nonostante l’insopportabile retorica dell’identità e dei valori alimentata ad arte da coloro che vorrebbero consegnarlo subito a una simile galleria. Non è la fusione tra Ds e Margherita che ha innescato questo circolo vizioso. E’ per uscire da questo circolo vizioso, al contrario, che Ds e Margherita hanno deciso di dar vita al Partito democratico. Se si vuole discuterne seriamente, infatti, non si può rimuovere la storia di questi ultimi quindici anni. E soprattutto non si può dimenticare che in politica non sono le parole a definire le cose, ma le cose a definire le parole. L’identità di un partito non è definita dal suo nome, dai suoi simboli o dalla sua retorica, ma dalla sua politica. Alla costituente socialista annunciata da Enrico Boselli durante il congresso dello Sdi dovrebbero partecipare formazioni e dirigenti che in questi quindici anni sono stati ininterrottamente su fronti opposti, chi al governo con Silvio Berlusconi e chi all’opposizione con Fausto Bertinotti. I soli socialisti di Boselli hanno promosso liste comuni prima con i Verdi di Alfonso Pecoraro Scanio, poi con Ds e Margherita nella lista dell’Ulivo e infine con i Radicali di Marco Pannella. Ora criticano la “fusione fredda” del Partito democratico assieme al correntone diessino di Fabio Mussi, che si dice interessato tanto alla costituente socialista di Boselli quanto alla costituente comunista di Bertinotti. Dal ’98 al 2001 simili difensori della coerenza ideale e identitaria sono stati al governo con Boselli, all’opposizione da sinistra con Bertinotti e all’opposizione da destra con De Michelis. Dal 2001 al 2006 le parti si sono invertite, Boselli e Bertinotti sono stati insieme all’opposizione, De Michelis è stato al governo con Forza Italia, An e Lega. Non si vede perché oggi la parola “socialista” dovrebbe improvvisamente rivelarsi capace di unire quel che la politica, in tutti questi anni, ha irrimediabilmente diviso. In tutti questi anni, al contrario, Ds e Margherita sono stati insieme al governo e insieme all’opposizione. Ed è da qui – dall’azione politica concreta condotta nel paese e dalla concretissima lotta per l’egemonia tra riformisti e radicali condotta all’interno della coalizione – che è emersa la possibilità e l’esigenza dell’unità tra i due partiti. Questa è la ragione per cui la costituente socialista con Mussi e De Michelis, verosimilmente, non avrà miglior sorte del Girasole con i Verdi, della Rosa nel Pugno con Pannella o di tutti i possibili incroci di laboratorio – questi sì! – che i custodi dell’identità socialista potranno inventare, nel loro irrefrenabile feticismo lessicale. E a conferma del fatto che non è l’identità di un partito a definirne la politica, ma la politica a definirne l’identità, sta una banale constatazione: i partiti politici morti e sepolti, come il partito bolscevico di Lenin o il partito fascista di Mussolini, evidentemente, oggi non hanno più una politica, e non possono in alcun modo averla, perché sono morti. Ma il fatto di essere morti e sepolti non impedisce loro di possedere ancora oggi una fortissima identità. Anzi, oggi molto più che in passato, quando erano vivi e immersi nel loro tempo, la loro identità appare come un cristallo purissimo di perfetta e levigata coerenza, priva di tutte le incrostazioni e le contraddizioni che vengono dall’attrito quotidiano con la realtà e con il mondo circostante. Ma quella condizione che a taluni, evidentemente, appare ammirevole e invidiabile, non è altro che rigor mortis. E’ l’imperturbabile coerenza delle salme. E’ la bellezza immutabile e incorruttibile delle lingue morte. E’ lo sguardo fiero dei condottieri di marmo, con il loro vasto seguito di piccioni. E non c’è ragione di invidiarla.

venerdì 13 aprile 2007

La Margherita dice sì ma soffre: "È un matrimonio squilibrato"

Edmondo Berselli - la Repubblica, del 13-04-2007

Rutelliani, prodiani, parisiani. E poi popolari, laici, liberali, socialisti, ambientalisti. Un vortice, una girandola di congressi, di circoli, di tessere, con un corollario tardo-democristiano di ricorsi e contestazioni. Se c´è un partito versatile, anzi di più, un partito costitutivamente eclettico, questo è la Margherita. Con uno spettro variegatissimo di sfumature, di tradizioni, di ispirazioni, di culture.
In effetti la Margherita è un partito "post", che viene dopo che è successo tutto: dopo la dissoluzione della Democrazia cristiana, dopo la confluenza dei democratici dell´Asinello prodiano, e soprattutto dopo la fine o la trasfigurazione delle culture politiche tradizionali: «In teoria», dice uno degli esponenti più vicini ad Arturo Parisi, il bolognese Antonio La Forgia, ex comunista di antiche ascendenze ingraiane, «noi siamo il partito più moderno dell´Unione. Con le caratteristiche più profonde del catch-all-party, il partito "pigliatutto" che si rivolge alla società intera con un´idea di modernizzazione del paese». E che perciò non esprime verso il futuro partito democratico le resistenze che si manifestano apertamente o che serpeggiano come una febbre nel corpo dei Ds.
Piuttosto c´è ansia, se non proprio timore, per la «fusione asimmetrica». Cioè per un matrimonio fra partiti squilibrati numericamente, a vantaggio dei Ds. «Non siamo proprio alla ricetta impazzita del pasticcio di allodola e cavallo - dice La Forgia - ma la differenza numerica fra i due partiti maggiori del centrosinistra balza in primo piano in ogni discussione e in ogni ipotesi per il dopo congresso». Ed è riconoscibile anche una specie di continua, evocata, sottolineata "subliminal competition" con il partito di Fassino.
Il paragone fra i due partiti a prima vista è semplice. I congressi dei Democratici di sinistra si sono svolti nel modo più tradizionale e identificabile: la mozione del segretario, con il dissenso strutturale della mozione Mussi, e la fronda della terza mozione, Angius-Zani. Mentre dentro la Margherita i settori di resistenza aperta all´approdo nel Pd sono limitati. Piccole enclave di refrattari. Prevale semmai un´inquietudine, resa esplicita da uno dei giovani leader del partito, Lapo Pistelli: «Le strategie all´interno dei Ds sono chiare; c´è l´eventualità che una parte del nucleo dirigente si stacchi, ma in linea di tendenza non si staccheranno gli elettori. Mentre per noi vale il contrario: il gruppo dirigente è compatto, ma con la rinuncia di un´identità specifica c´è invece il timore di perdere quote di elettori».
Dentro la Margherita si guarda con freddezza ai dati dei sondaggi, che al momento fissano pessimisticamente il Partito democratico a un quarto dell´elettorato. «Intanto il fatto più importante», dice uno degli uomini di punta, il presidente dei deputati dell´Ulivo Dario Franceschini, «è che al Pd la Margherita ci arriva tutta intera, senza defezioni e senza rotture». Sembra un´ovvietà, ma sullo sfondo di questo risultato c´è un lavorio che ha cambiato la struttura del partito. Oggi la Margherita è il risultato dell´incontro di Chianciano dell´autunno scorso, in cui i popolari, capitanati anche simbolicamente dal "tridente" composto da Enrico Letta, Franceschini e Giuseppe Fioroni, hanno riallineato il partito sulla struttura organizzativa degli ex popolari, guadagnando nei congressi locali un largo vantaggio.
Con quale risultato e quali prospettive? A sentire gli uomini del "tridente", l´avere oggi un partito con un 70-80 per cento di matrice popolare è un risultato tutt´altro che negativo nel momento in cui occorrerà avviare una fase "contrattuale" con i Ds, ossia quando comincerà la convivenza, dopo i due congressi simultanei e in attesa dell´assemblea costituente dell´autunno prossimo.
Ma nel frattempo aleggiano sull´itinerario verso il Pd un paio di problemini tutt´altro che semplici. Che si chiamano nientemeno Rutelli e Prodi. Per quanto riguarda il presidente della Margherita, al momento il suo ridimensionamento è indubbio. Dovrà reinventarsi un ruolo puntando sul fatto che la sua figura è la garanzia formale e sostanziale che il Partito democratico non sarà una riedizione minore del compromesso consociativo fra sinistra democristiana ed ex Partito comunista.
Quanto al premier, il discorso si fa delicato: perché Prodi va considerato il padre fondatore, possibilmente il futuro presidente del partito democratico, il federatore di una iniziativa che rivoluziona il centrosinistra e la politica italiana, e che a suo giudizio non si conclude affatto con la fusione fra Ds e Margherita. Ma per l´ala più esplicita della Margherita, rappresentata ad esempio dal sindaco di Venezia Massimo Cacciari, «Prodi è un hapax legomenon, termine filologico per indicare un termine unico, che ricorre solo in quell´autore. Pensa di poter governare il Paese e poi anche il futuro partito, soltanto dalla posizione di presidente del Consiglio».
Liquidato anche Prodi? No, ma si ha la sensazione palpabile che con il Big Bang costituente si assisterà a un cambiamento radicale nella politica del centrosinistra. Prodi ha scritto all´Unità che auspica un «partito dei cittadini», aperto alla società civile, ai movimenti, alle associazioni. Dimostrando così che non ha nessuna intenzione di assistere da spettatore passivo alla genesi del nuovo partito. Anche il capo del governo sa bene che finiranno al macero alcuni schemi che nell´ultimo decennio hanno dettato il codice di comportamento della politica italiana. Come dice Franceschini: «Forse non ci siamo ancora resi conto che con la nascita del Pd finiscono tutte le rendite di posizione. Non basterà più qualificarsi come i più moderati della coalizione per guadagnarsi le candidature. Non ci sarà più la figura dell´uomo di garanzia elettorale, il moderato che traghetta la sinistra nell´area del governo. Dentro il Partito democratico saremo tutti uguali, e questa è più o meno la rivoluzione».
Il che significa che il processo costituente sarà verosimilmente movimentato. Se Fassino si sente legittimato a concorrere alla leadership del Pd, altre figure nutriranno la stessa ambizione. E non va perso di vista un aspetto destinato a complicare ulteriormente i giochi: nella politica postideologica le aggregazioni di partito si formano intorno a una leadership. Quindi nella Margherita tutti sanno benissimo che si porrà il problema di decidere se il capo del Partito democratico sarà anche il candidato dello schieramento alle elezioni politiche e quindi alla premiership. «Credo che in un primo momento sarà opportuno tenere distinte queste due posizioni», commenta Giulio Santagata, ministro per l´attuazione del programma, l´uomo più in vista della piccola pattuglia prodiana. Anche perché tutti sanno che nell´arco temporale dell´effettivo varo politico del Pd, di qui alle elezioni europee del 2009, la fusione fredda dovrà scaldarsi fino a far emergere una leadership nuova: «Inutile metterci un´ipoteca adesso.
E su questo tema si riscontra effettivamente la duttilità della Margherita, di cui fa parte anche la tradizionale disponibilità democristiana alla scelta pragmatica del leader. Per i Ds, la corsa alla posizione di vertice può essere l´ultima battaglia per lo sdoganamento dello sdoganamento, la perfetta legittimazione senza più residui o riserve mentali. Invece per la Margherita, la gara per la leadership è più che altro un modo di fare politica nello scenario nuovo: «Ognuno dovrà metterci del suo», ridacchia Franceschini, proprio perché non ci saranno diritti ereditari da far valere. E La Forgia, con un realismo che viene da lontano: «I Ds hanno una forza elettorale superiore, ma a ben guardare la Margherita è già una specie di partito democratico. Tanto per capirci, noi, al casino, ci siamo più abituati».